martedì 13 marzo 2012

Il passato del presente

Roma-Cagliari-Roma, 21 aprile 1928. "Era tutto un passato che se ne andava dall'isola" scrisse Dino Sanna nelle cronache del giorno del primo volo aereo civile tra la Sardegna e l’Italia. Quale passato andava via?
Da allora al momento in cui il mezzo aereo diventasse un mezzo di trasporto di massa per i sardi, passò quasi mezzo secolo.
Siamo su un’isola e per collegarci con il resto del mondo abbiamo due mezzi, quello navale e quello aereo. Ma questo non vuol dire che l’essere isola ci metta in condizione di handicap. Del resto ciascuno di noi è un’isola rispetto agli altri e utilizza i mezzi che ha a disposizione o che può permettersi per connettersi agli altri. Il nostro handicap è dunque, piuttosto, nell’incapacità di “vedersi” in un arcipelago di isole quale siamo,  in cui ciascuno si collega alle altre con i mezzi che può utilizzare. Minimizzando il dispendio di risorse energetiche, materiale e finanziarie e massimizzando l'impegno intellettuale e la capacità progettuale.

Da anni in Sardegna si discute di come gestire, come incentivare e dare un vero servizio di trasporto aereo, la continuità territoriale aerea.
Sappiamo che la Regione Sardegna, nell’attuale finanziaria, ha deciso di investire quasi 50 milioni di euro all’anno per tre anni come contributo alle società aeree che, in una gara pubblica, si aggiudicheranno le tratte tra la Sardegna, Roma e Milano a prezzi concordati e per tutti, sardi e non. Tariffa stabilita in  43,00 € per Roma e 54 € per Milano.
Ma siamo sicuri che sia questa la soluzione ottimale? La soluzione che ci consente al meglio il collegamento con le altre “isole”? Che sia una gestione ottimale di un bene collettivo come questo e che sia la soluzione più intelligente e meno dispendiosa per collegarci con Roma e Milano? 
Facciamo due conti.
La Regione si è basata sui calcoli che ha formulato il deputato Mauro Pili, a disposizione in questo sito internet,  e che ci fornisce una brochure in cui elabora i dati sui costi di gestione per un’ora di volo di un aereo di linea, ricavati dagli studi della CAB (Civil Aeronautic Board).
Quei dati dicono che il costo di un’ora di volo tutto compreso è inferiore ai 7 mila euro e per tutto si intende veramente tutto, non solo il carburante, il personale, le varie tasse portuali, rimessaggi, hangar, e persino lo snack a bordo! Tutto dunqueAnche la percentuale dell’8% di profitto per la società e pure la quota per biglietto del costo del leasing per l’acquisto è prevista in quei 7mila euro.
Tutto questo per quantificare e legittimare una tariffa ritenuta equa, in base a quei dati, dall'assessorato ai trasporti della Sardegna.
Proviamo ora invece a ragionarci su con una coscienza diversa rispetto a quella di questa classe politica. Proviamo a ragionarci con la coscienza di chi pensa, ragiona, investe e programma per il bene comune.
Partiamo considerando che quei 50 milioni annui, per 3 anni, che verranno stanziati per finanziare i prezzi a tariffa  imposta, sono soldi sottratti dalla società sarda. Ancor meglio, sono stati reperiti e tolti dalla disponibilità dei fondi per i trasporti interni, quel sistema già decadente che porta una sarda di Sassari ed una di Cagliari, oppure uno di Lanusei ed uno del Sulcis ad incontrarsi, grazie ai voli low-cost, più facilmente e più spesso a Barcellona, Lisbona o Londra piuttosto che a Cagliari, Oristano o Nuoro.
Dunque, prima conseguenza. Per finanziare le compagnie aeree stiamo definitivamente distruggendo il servizio dei trasporti interni alla Sardegna.
Seconda considerazione. Se applicando quelle tariffe si compensano sia le spese ordinarie che quelle dell’acquisto e si genera un profitto dell’8%, per quale motivo la Regione regala anche altri 50 milioni all’anno alle compagnie aeree, sottraendoli alle già scarse risorse economiche della Sardegna, e non si procede invece all’acquisto degli aerei -  dal momento in cui quella tariffa comprende, oltre al profitto dell’8%, anche la parte di ammortamento del leasing per l’acquisto del veicolo e quindi di fatto lo finanzia - creando una compagnia aerea sarda che possa essere il mezzo  con cui ci incontreremo con le altre isole?
Partendo dagli stessi dati e risorse finanziarie a disposizione  si ottengono due risultati differenti. Nel primo si finanzia un servizio già ampiamente pagato nelle tariffe applicate, impoverendo le casse pubbliche e sottraendole ad altri servizi essenziali, ritrovandoci con il problema irrisolto tra tre anni, con i trasporti interni ancora peggiori di quanto lo siano oggi e risorse economiche che genereranno benessere, ancora una volta, a tutti fuorché ai sardi.
Nell’altro caso, il nostro, si risparmiano quei finanziamenti, li si investe nelle opere per cui erano preposti creando altro benessere e si dota la Sardegna di un proprio mezzo con cui collegare i sardi con il resto del mondo, generando tra l’altro economia da una propria risorsa preziosa: quella di essere in mezzo al Mediterraneo.
Nel 1928, dall’idroscalo di Elmas, ci fu il primo volo aereo civile tra la Sardegna e l’Italia, "era tutto un passato che se ne andava dall'isola" scrisse Dino Sanna nelle cronache del giorno, ma non portò via la condizione d’isolamento mentale in cui viveva, vive e vegeta la nostra classe politica unionista.

martedì 14 febbraio 2012

Mancati isolamenti


Siamo alle solite, prima si solidarizza in maniera sconsiderata, poi, in maniera  altrettanto sconsiderata, si demonizza. 
Mi riferisco alla rivolta greca dove, in mezzo e a farne le spese, come sempre c’è il popolo.

Le droghe agiscono subdolamente nelle menti e questo lo sanno bene gli spacciatori, e lo sanno anche coloro che consentono ai trafficanti e alla mafia che c’è dietro di portare avanti questi progetti criminali, arrivano ad offrirti gratuitamente le prime dosi, poi se le vuoi, le devi pagare a caro prezzo. Le droghe non sono solo quelle vietate da apposite leggi, ma anche quelle legali, come in questo caso.

Quando arrivarono massicce dosi di liquidità in Grecia, dall'Europa, nessuno tra i solerti, precisi e puntuali “vigili”tedeschi e francesi si alzò e mise paletti preventivi ne tantomeno bloccò quello scellerato utilizzo dei fondi europei, ma lasciarono fare, lasciarono che sperperassero i fondi messi a disposizione senza che generassero alcun benessere duraturo ne che stimolassero una crescita nella produzione o nell’attrazione di investimenti, ma solo clientelismi e assistenzialismi di stato.

Sono droghe, droghe istituzionali, droghe per i popoli, droghe che, come tutte, condizionano e ammansiscono le masse e le annullano, non  riescono più a farne a meno perché non riescono a immaginarsi senza.

Si dirà che il popolo poteva sapere e che doveva ribellarsi prima, ma il popolo quanto è a conoscenza delle reali possibilità, sviluppi, progetti e consistenza dello stato?
Il popolo non è composto da dottori commercialisti, il popolo da mandato a chi poi governa ed è pagato profumatamente per farlo.
Il diritto internazionale parla di “debito detestabile” e si configura quando  c’è la completa illegittimità di un debito di cui i cittadini non sono responsabili. Sono tre i requisiti che devono ricorrere affinché un debito sia definito detestabile:
1) il governo del Paese deve aver conseguito il prestito senza che i cittadini ne fossero consapevoli e senza il loro consenso;
2) i prestiti devono essere stati utilizzati per attività che non hanno portato benefici alla cittadinanza nel suo complesso;
3) i creditori devono essere al corrente di questa situazione, e disinteressarsene.

Questi tre casi ricorrono tutti in quel di Grecia e in quel caso ricorre la procedura già attuata, per primi, nel 1898 dall’America in soccorso ai cubani al momento della liberazione dalla Spagna che rivendicava il pagamento del debito che aveva e che pretendeva da Cuba.

Non sto dicendo che non si debbano onorare i debiti, ma che si cerchino i responsabili in ogni organismo nazionale e internazionale e si proceda a rendere giustizia, e che gli enti responsabili per non aver vigilato concordino una ripresa economica dei popoli vittima del loro stesso sistema senza portarli sull’orlo della disperazione.
Badate, questo ricorre anche in terre a noi più care e prima o poi saremo noi a doverci districare in certi meandri bastardi.

Non scordiamoci mai che l’Europa è un’istituzione nata volutamente storpia perché è nata con una moneta con tassi d’interesse unico applicato però a mercati con contrattazioni di lavoro, produttività - quindi di costo di produzione - differente e con debiti pubblici “nazionali”,  questo è il risultato, pensavate forse che seminando monete nascessero alberi di soldi?

Ciò che è successo in Grecia sia da monito per tutti, non lasciamoli più fare senza controllarli, non accettiamo più soldi regalati, assistenzialismi, clientelismi e facili economie perchè non esistono, e quando ve le prospettano stanno per fregarvi: rifiutatele, è come rifiutare di andare a sedersi in una bella sedia collegata ad un sistema di riscaldamento elettrico ma senza isolamenti.

Questo è quello che è successo ai greci, agli spagnoli, agli italiani e a tanti altri popoli. Questo è quello che è successo e succede ai sardi.

mercoledì 21 dicembre 2011

Tempo di raccolto

V parte
di Giùliu Crechi   e Franciscu Sedda
Nei capitoli precedenti abbiamo visto l’importanza che riveste una riscossione diretta dei nostri tributi, ora è arrivato il momento di capire su quale diritto e su quali procedure istituzionali si basa la riscossione diretta dei tributi.
Per la verità ci sarebbero stati altri argomenti da trattare prima di questo, ma come in tutte le cose il momento della raccolta impone il suo ritmo. Quando i frutti sono maturi vanno raccolti, altrimenti cadono, marciscono e il raccolto va perso. A quel punto si dovrà aspettare l’anno successivo per avere un altro raccolto, ma quello perso rimarrà perso per sempre. Per noi questo è il tempo del raccolto, e più avanti capirete il perché.

Questione di diritto

Abbiamo visto che lo statuto sardo, documento di livello costituzionale, all’articolo 9 recita
“La Regione può affidare agli organi dello Stato l’accertamento e la riscossione dei propri tributi”.
In questo passaggio notiamo due importanti informazioni che ci interessano:
  • la prassi della riscossione tramite gli organi dello Stato, quella che ci ha causato un danno miliardario, non è obbligatorio ma di libera scelta;
  • Si parla di propri tributi.
Il primo non necessita di commenti, è chiaramente una scelta politica. Il secondo merita invece un approfondimento. Quello che va capito infatti è se esso si riferisca solo ai tributi regionali, come è stato detto fino ad oggi seguendo una interpretazione a nostro modo di vedere errata, oppure alla totalità dei tributi citati nell’articolo 8 dello statuto.
Quello che va capito infatti è se esso si riferisca solo ai tributi regionali, come è stato detto fino ad oggi seguendo una interpretazione a nostro modo di vedere errata, oppure alla totalità dei tributi citati nell’articolo 8 dello statuto.
Il punto, noiosamente burocratico ma politicamente decisivo, sta (anche) nella posizione del possessivo “propri”: se andiamo a verificare nel dettaglio infatti ci accorgiamo che i “tributi propri” sono solo quelli istituiti dalla Regione (come nel caso della famosa tassa per l’ambiente erroneamente e maliziosamente denominata dai media “tassa sul lusso”).
La cosa è chiara guardando alla lettera “i” dell’articolo 7 che, enumerando ciò che compone la finanza della regione, fa riferimento anche alle “imposte e tasse sul turismo e da altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato;”.
L’articolo 7 (che ricade nel TITOLO III – Finanze – Demanio e patrimonio) è tuttavia ben più ampio e comprensivo e non a caso statuisce che “la Regione ha una propria finanza”, non una “finanza propria” – e ci perdoni il lettore ma non siamo certo noi ad aver inventato il burocratese italico di sabauda memoria e non lo rimpiangeremo di certo nella futura Repubblica di Sardegna!
Ecco dunque l’articolo 7:
TITOLO III – Finanze – Demanio e patrimonio Articolo 7 – La Regione ha una propria finanza, coordinata con quella dello Stato, in armonia con i principi della solidarietà nazionale, nei modi stabiliti dagli articoli seguenti.
E gli articoli seguenti sono esattamente l’8 – in cui si parla dei “propri tributi”, ovvero quelli versati dai sardi allo Stato di cui la Sardegna ha una compartecipazione – ed il 9 – dove si dice che la Sardegna “può delegare” l’accertamento e la riscossione dei tributi, ma evidentemente non è tenuta o obbligata a farlo.
Insomma, è evidente che la competenza e consistenza finanziaria sarda, la “propria finanza” della Sardegna, non si limita ai “tributi propri”, ma comprende questi insieme al malloppo dei “propri tributi”, che sono la maggior parte della ricchezza prodotta dai sardi e finora riscossa, incamerata e in gran parte indebitamente trattenuta dallo Stato italiano.

Riassumendo

  • La Regione ha una “propria finanza” (articolo 7);
  • La consistenza di questa “propria finanza” è quantificata nell’ articolo 8;
  • La Regione può “scegliere” (ma non è “obbligata”!) di lasciar accertare e riscuotere la sua finanza dagli organi centrali dello stato.
La domanda che sorge spontanea e che ormai tutti i sardi si pongono è: perché dovremmo lasciare ad altri l’accertamento e la riscossione dei nostri soldi?
E la cosa è doppiamente motivata: dalla sfiducia nei confronti di uno Stato che ha tradito ogni regola e fatto carta straccia di ogni contratto con la Sardegna, ma anche da una più fondamentale e profonda esigenza di responsabilità. Non solo dunque un moto di legittima autodifesa ma una più dirompente volontà di diventare adulti, di emanciparsi, di affrontare la sfida a governarsi da sé, a gestire la propria ricchezza, come farebbe chiunque decide di farsi una vita propria.
Qualunque cosa sia successa in passato, qualunque scelta si sia fatto prima, oggi la forza dei fatti e la forza della nostra volontà ci spingono verso una reale sovranità tributaria che è il preludio della sovranità fiscale e dunque della piena e concreta sovranità politica.

Come procedere

Intanto teniamo conto di una cosa: a situazione vigente ciò che noi sardi stiamo progettando di mettere in opera è ciò che i siciliani hanno già. Il nostro percorso è dunque fin da ora legittimato da un precedente importante, il DPR del 26 luglio 1965, n. 1074 in cui si concede alla Sicilia la riscossione diretta dei propri tributi.
E qui è bene ricordare che la Sicilia è, istituzionalmente, un pari soggetto della Sardegna, una Regione autonoma. In base a quale criterio dovrebbe essere concesso un diritto ad un soggetto e negato ad un altro di pari grado?
A questo punto cosa serve per procedere alla riscossione dei nostri tributi?
Semplicemente si tratterebbe, da parte del governo sardo, di affermare il proprio diritto a riscuotere i tributi.
A questo punto qualcuno dirà, mettendo come al solito le mani avanti, che per rendere questo gesto valido servirebbe comunque una sentenza della Corte Costituzionale. E che questa sentenza non esiste.
Ammesso e non concesso che così sia, è abbastanza ovvio il motivo per cui la Corte Costituzionale non si è mai pronunciata in materia: se nessuno pone la questione, se il governo sardo non afferma la sua volontà di riscuotere i tributi, la Corte Costituzionale non è tenuta a pronunciarsi in materia.
Il ragionamento tutto “sardo” del “non ci provo nemmeno perché intanto me lo cassano” va ribaltato, a meno che non si voglia fare la fine del ragazzino eccessivamente timido che non ci prova mai per non essere rifiutato, e così rimane eternamente a bocca asciutta. Noi dobbiamo affermare i nostri diritti. Ad altri la responsabilità e il rischio di negarceli.
Eccoci dunque al punto di partenza: è tempo di raccolto.
Siamo a fine anno e in questo periodo il governo sardo deve lavorare alla prossima finanziaria. Ed è proprio lì che si deve operare.
Si sancisca la riapertura dell’ARASE e gli si dia mandato di accertamento e di riscossione. Si abbia dunque il coraggio di innescare “la causa” che porterà la Corte Costituzionale a doversi pronunciare ed emettere sentenza sulla costituzionalità della procedura di accertamento e riscossione dei propri tributi.
Sia l’Italia poi a prendersi la responsabilità di negarci un diritto.
Noi sardi, noi indipendentisti, non abbiamo più intenzione di rinunciare a ciò che ci spetta, a ciò che è nostro.

sabato 3 dicembre 2011

Riscuotiamo noi i nostri tributi, aiutiamo il nostro sistema produttivo

IV parte
… e invece …
Si dice che nei buchi neri che popolano il cosmo tutto si ribalta e va al contrario. Ciò che sulla terra è positivo, là, dentro il buco nero, si trasforma in negativo. Se un umano dovesse andarci subirebbe una sorta di capovolgimento totale, un po’ come le figure antropomorfe delle nostre domus de janas – chiamati appunto “i capovolti” – che man mano che scendono verso “su cabitzabi” tra la vita e la morte, subiscono la metamorfosi e si trasformano in altro.
Nei buchi neri non solo gli orologi girano al contrario ma si nasce vecchi e si muore rimpicciolendosi fino a scomparire. Viene da domandarsi se anche la salute dei conti pubblici, là dentro, risulti a posto quanto più i conti stessi sono disastrosi. Potrebbe essere una soluzione per lo Stato italiano…
Ma torniamo a noi, alla Sardegna, alla sua classe politica, alla nostra personale banda del buco nero.

Nel 2001, come abbiamo visto partendo dai dati forniti dal prof. Pigliaru, nei conti pubblici della RAS c’era un debito di circa 350 milioni. Una cifra, come detto, normale e solvibile per una terra delle nostre dimensioni. E invece…invece di andare verso un risanamento totale, fattibile anche sulla base delle risorse che l’allora “governo amico” (di Pili e Masala) presieduto da Silvio Berlusconi avrebbe dovuto renderci, il debito si è ingigantito. Risucchiati dentro un nuovo buco nero, incapaci di mettere in atto non solo una politica di giustizia e di affermazione di diritti nei confronti dello Stato italiano, ma anche un buon governo mosso dal puro e semplice interesse a far bene e salvare la pelle, gli intrepidi Pili e Masala nel giro di poco meno di 4 anni hanno fatto in modo che il debito si decuplicasse, fino ad arrivare all’assurda cifra di quasi 3 miliardi e mezzo di euro.
Si noti inoltre, per completezza, che gli interessi su un debito del genere ammontano a qualche centinaio di milioni all’anno. Il che significa che se avessimo avuto un governo capace di affermare sovranità ed esercitare un buon governo con il solo risparmio degli interessi maturati a seguito dell’indebitamento impazzito avremmo avuto fondi sufficienti per acquistare in contanti almeno due navi di ultima generazione per quella “flotta sarda” che tutti i sardi da sempre sognano e che è invece diventata una triste farsa.
Renato Soru, durante il suo mandato, riuscì a ridurre questo debito di circa un miliardo. Ci riuscì grazie alla sua abilità in materia di bilancio, attraverso una riduzione degli sprechi, ma anche a una serie di tagli contestati. E fu anche a causa dei malumori che certi tagli provocarono che poté tornare al governo la banda del buco nero guidata da Cappellacci, che non a caso era già stato assessore al bilancio nel 2003/2004. L’asticella del debito pubblico venne prontamente riportata verso l’alto. Nel 2009 la giunta Cappellacci cercò addirittura di far passare nella finanziaria l’accensione di un nuovo scellerato mutuo di 1 miliardo. La proposta naufragò soprattutto per il gran clamore che il mondo indipendentista sollevò contro questo incredibile sistema di gestione finanziaria contrario alle leggi economiche tanto a quelle della natura, del buon senso e della buona politica. Il risultato fu che quell’assurdo intento venne ritirato dalla finanziaria.
La situazione odierna è sotto i nostri occhi. La gestione disastrosa dell’economica della Regione Sardegna la stiamo vivendo sulla nostra pelle giorno per giorno. Ma cosa possiamo fare?
Riscossione diretta delle nostre entrate, questa è la soluzione.
La soluzione definitiva a questo malessere e malaffare sarebbe l’istituzione dell’Agenzia Sarda per le Entrate con funzione di riscossione , ovvero una agenzia sarda incaricata della riscossione dei tributi versati dai sardi (vedi il secondo capitolo su “Fisco, entrate, previsioni statutarie e legislative”).
Ora dobbiamo dunque andare più a fondo sul tema dell’Agenzia Sarda delle Entrate, chiedendoci più nel dettaglio:
  • A cosa serve?
  • Che benefici ci porta?
  • Come procedere?
A cosa serve?
Il sistema attuale delle riscossioni in Sardegna, come abbiamo visto in precedenza, ci ha causato un danno economico di oltre dieci miliardi di euro. Di questi dieci miliari di euro non abbiamo iniziato a riscuoterne nulla e questo è in gran parte colpa della sudditanza e del timore reverenziale che la classe politica sarda ha nei confronti dello Stato italiano.
Il danno di questa rapina legalizzata è evidente.
Consideriamo anche un altro fattore spesso dimenticato. Non solo lo Stato non ci ha reso i nostri soldi ma mentre questi soldi non rientravano e la RAS si indebitava, noi pagavamo interessi bancari per i mutui che venivano accesi con la facilità con cui si beve un bicchiere d’acqua. Se è vero che parte della responsabilità per tutto questo va attribuita all’incapacità della nostra classe dirigente di affermare la sovranità politica, fiscale e tributaria dei sardi è anche vero che l’Italia non solo non ci ha reso i nostri soldi ma non ci ha neanche corrisposto alcun interesse per il debito che abbiamo dovuto accumulare per sopperire (malamente) alla mancanza delle risorse che proprio lo Stato italiano ci aveva sottratto. Il danno dunque è stato doppio e proprio per evitare questo circolo vizioso, questa doppia presa in giro che mette in ginocchio la nostra economia, noi abbiamo bisogno della nostra Agenzia Sarda delle Entrate.
Ritorniamo ora all’operato di Renato Soru che su questa materia si dimostrò certamente più combattivo di qualunque altra giunta autonomista. Soffermiamoci su quanto avvenne proprio per dimostrare che non è la buonafede dei singoli ma il sistema e la mentalità autonomista che va superata in modo da dar vita a una politica di “sovranità agita” consapevolmente e coraggiosamente.
Renato Soru infatti, dopo aver risposto alla provocazione indipendentista a verificare i conti e aver ottenuto lo straordinario risultato di veder ufficializzato dallo Stato l’ammanco miliardario a danno dei sardi, dopo aver infine portato a Roma ben tremila sardi di ogni schieramento e colore, cedette (come la maggior parte dei sardi) al ricatto morale portato avanti dai maggiori quotidiani italiani secondo cui la battaglia dei sardi per le entrate, portata avanti come battaglia di popolo, era una rischiosa forma di legittimazione e sostegno al sentimento indipendentista. Meglio dunque, prima di scoprirsi indipendentisti senza volerlo, ritornare nel comodo alveo degli accordi politici di palazzo, alla solita fiducia nei “governi amici” e nello Stato.
Ecco dunque nascere l’accordo Prodi-Soru che, al di là delle buone intenzioni e di alcuni buoni elementi, riduceva la somma da restituire, alla voce Iva, a 500 milioni e concordava una resa in 20 anni a comode rate da 25 milioni di euro all’anno senza interessi. L’accordo tra l’altro risultava essere anche una sorta di condono sul pregresso Iva che lo Stato italiano ci doveva per quei 12 anni di buio totale nelle finanze sarde.
Nonostante questo atteggiamento ancora una volta amichevole e fiducioso all’eccesso da parte del governo sardo – quasi un regalo o un perdono se si considera la pubblica ammissione di colpa dello Stato italiano – la risposta tutt’altro che generosa dello Stato italiano non si fece attendere.
Come in quei film in cui il buono risparmia il cattivo, gli tende la mano, e questo lo accoppa senza pietà.
Così lo Stato italiano, da lì a pochi anni, per far capire tutta la sua attenzione e il suo riconoscimento per quei sardi così disposti al perdono e alla mediazione scagliò la sua agenzia di riscossione dei tributi contro gli imprenditori, i commercianti, gli artigiani, gli agricoltori, i pastori sardi: interessi su interessi, mandando di fatto in fallimento gran parte del tessuto produttivo sardo.
Per questo la riscossione diretta delle nostre entrate (così come la nostra capacità di non farci muovere a compassione dallo Stato italiano) è importante, anzi, decisiva.
La riscossione diretta dei nostri tributi è fondamentale per avere finalmente certezza delle nostre risorse, delle nostre politiche, della nostra economia. Per poter intervenire a favore e in aiuto del nostro tessuto produttivo.
Bisogna attivare subito l’Agenzia Sarda delle Entrate . Ne va della salvezza del nostro tessuto produttivo. E della possibilità stessa di impiegare efficacemente i nostri soldi. Perché, lo si noti, anche se avessimo momentaneamente a che fare con uno Stato onesto, incassare i soldi tramite altri è un meccanismo che di fatto ritarda l’impiego delle nostre risorse. E questo è decisivo per una reale politica di sovranità, tanto più in situazione di crisi.
I benefici immediati
Incassare direttamente i nostri tributi, quindi, non è una solo una questione di motivata sfiducia nei confronti dello Stato italiano – motivazione che da un puro punto di vista pragmatico è già di per sé determinante -, non è solo questione di stringente necessità di sopravvivenza ma è anche (e dal punto di vista politico, principalmente) un diritto e una responsabilità che noi sardi vogliamo e dobbiamo assumerci, per il bene della nostra terra e della nostra gente. Per il nostro benessere.
Avere una Agenzia Sarda delle Entrate, sapere immediatamente a quanto ammontano le risorse a nostra disposizione, dunque la nostra possibilità di impiego, ci consente infatti una programmazione più accorta e attenta. Una programmazione economica non fittizia o illusoria, basata su bilanci truccati, ma sull’effettiva disponibilità, significa avere finalmente la possibilità di poter assolvere con immediatezza e certezza agli impegni economici contratti con le imprese che forniscono servizi alla società del settore pubblico; significa evitare che questi imprenditori si trovino in difficoltà economiche perché non hanno ricevuto quanto gli spettava (o perché i pagamenti arrivano a 120 giorni dalla prestazione!).
È questa inaffidabilità dello Stato e della Regione Sardegna, questa incapacità di gestire in modo certo, competente e sovrano le nostre risorse, uno dei principali motivi per cui oggi molti imprenditori si trovano sull’orlo del fallimento o sono già falliti. Molti di loro, quelli onesti, sono finiti nella morsa di Equitalia, perché, non avendo ricevuto i pagamenti, non hanno potuto assolvere agli obblighi fiscali.
Questa prassi politica, a cui in troppi si sono abituati o rassegnati, va cambiata. Non è tollerabile che le istituzioni non ti paghino per il lavoro fatto e, dopo averti condannato a non poter assolvere ai tuoi obblighi fiscali, loro stesse (in modo diretto o indiretto) ti pignorino i beni, case comprese. Questa politica può e deve essere cambiata partendo dalla costituzione e dalla gestione virtuosa dell’Agenzia Sarda delle Entrate abbinata ad un Osservatorio Economico. Avere un Osservatorio Economico, e dunque un monitoraggio trasparente e in tempo reale del nostro sistema produttivo, significa infatti sapere quali settori produttivi sono in crisi, quali necessitano di intervento immediato, quali sono le criticità maggiori, come e in che quantità bisogna intervenire. Questo deve accadere in una società normale e giusta. Questo deve accadere nella Repubblica di Sardegna.
Avere fin da oggi, iniziando a conquistare una nuova sovranità per il nostro popolo, una società che riscuote e gestisce le entrate tributarie, significa anche anticipare i tempi. A gennaio 2012, tra pochi mesi, Equitalia non opererà più per la riscossione dei tributi degli enti locali. Se ci faremo trovare impreparati, come troppo spesso succede in Sardegna, dovremo ingoiare le solite polpette avvelenate dell’Italia e affidare le nostre riscossioni locali ad enti che ancora una volta non faranno gli interessi dei sardi.
Per tutto questo è tempo di una vera Agenzia Sarda delle Entrate.

venerdì 18 novembre 2011

Per non morire di sete sulla riva di un fiume. Note sul rapporto fra entrate e debito pubblico

III parte
di Giùliu Cherchi e Franciscu Sedda
Ci sono frasi pronunciate troppo a lungo. Così a lungo che a forza di ripetercele ci siamo convinti che siano vere: “Se ci dividessimo dall’Italia moriremmo di fame!”.
Quante volte l’abbiamo sentita, e forse, persino pronunciata o anche solamente pensata?
Quando si parla di indipendenza, o forse semplicemente “di Sardegna”, questa frase ricorre puntualmente.
Ma è proprio vero che se ci separassimo dall’Italia non saremo autosufficienti economicamente? E poi cosa vuol dire essere autosufficienti economicamente? Esiste uno Stato, uno solo, al mondo che sia autosufficiente economicamente? E soprattutto, oggi, sotto l’Italia, dopo decenni di integrazione, come stiamo? Siamo sommersi dal benessere o stiamo forse italianamente morendo di fame?
Per iniziare a rispondere a tutte queste domande partiamo dalla prima e proviamo a ragionare su dei dati conosciuti, relativi ad un tema e un periodo ben preciso che ci tocca tutti e che oggi è al centro del dibattito e della vita quotidiana di ciascuno di noi: il rapporto fra entrate e debito pubblico.

Proveremo dunque a ragionare su questo rapporto per come si presentava nel 2001. Del resto lo sappiamo: uno dei modi migliori per costruire un futuro dignitoso è imparare dalle esperienze e dagli errori del passato.
Il nostro vuole dunque essere un modo semplice per iniziare a ragionare su cosa avremmo potuto fare se fossimo stati uno Stato indipendente. È un modo concreto per iniziare a dissolvere paure certamente legittime ma sicuramente dannose o mortali. Soprattutto quando vengono accettate come verità indiscutibili, come una specie di destino beffardo o forse meritato, una volta divenute come delle gabbie invisibili che ci imprigionano e bloccano, che invece di spingerci all’autocritica e alla creatività, allo studio e all’azione, finiscono per trasformarci in un popolo di rassegnati.
Prendiamo dunque in considerazione un periodo, come dicevamo, in cui i dati economici ci sono ben noti: il 2001, anno in cui al governo sardo sedeva la giunta di centrodestra guidata da Mauro Pili.
Nel documento del prof. Pigliaru, docente di economia all’Università di Cagliari divenuto assessore regionale al Bilancio e alla Programmazione nei primi anni della giunta di Renato Soru, si riporta che in quell’anno la Regione Autonoma della Sardegna aveva uno stock di debito di circa 370 milioni di euro. Una cifra accettabile, sopportabile e solvibile per uno Stato grande e popolato come la Sardegna.
E infatti, se facciamo mente locale, ci dovremmo ricordare che la Sardegna in quel momento (proprio come oggi) viveva, in materia di entrate, una delle stagioni più vergognose della sua storia. Come abbiamo già visto nel nostro primo intervento e vedremo meglio nei successivi, la questione delle entrate è fondamentale. E per l’anno 2001 la situazione si riassumeva così: se da una parte la Sardegna aveva un debito di 370 milioni dall’altra ci venivano versati minori entrate annuali per circa 900 milioni.
Se ci si pensa un secondo balza subito all’occhio il fatto che se avessimo avuto tutte le nostre entrate la Sardegna sarebbe stata forse l’unica nazione al mondo con dei bilanci in attivo, cioè senza un soldo di debito.
Ovviamente le cose sono un poco più complesse di così ma proviamo a portare all’estremo questo dato perturbante e provocatorio. Facciamolo anche in modo da riflettere, nel modo più semplice possibile e senza tecnicismi, sul alcune importanti questioni economiche.
Tutte la nazioni del mondo per perseguire miglioramenti sociali ed economici, oltre agli strumenti di natura tributaria e per non pesare troppo sull’economia dei propri cittadini, ricorrono allo strumento dei “buoni del tesoro” (anche noi come BOT), ovvero, a dei certificati garantiti dallo Stato che danno, in un arco di mesi o di anni, un certo rendimento, corrispondente all’interesse sull’investimento.
Questo rendimento è rapportato al grado di solvibilità che uno Stato garantisce. Quindi è proporzionale alla garanzia offerta dalla sua condizione economica. Più l’economia di uno Stato è florida e più dà garanzie; più garantisce e meno rischio ci sarà per l’investitore; quindi minore e più basso sarà l’interesse che lo Stato dovrà corrispondere a chi ha comprato i suoi buoni.
La garanzia sullo stato di solvibilità viene certificata da agenzie indipendenti che operano a livello mondiale, le ormai famosi agenzie di rating, fra cui Moody’s e Standard&Poor’s (ma ce ne sono anche delle altre).
Ciascuna società di rating rilascia periodicamente una sua valutazione su tutti gli stati nazionali, così come su regioni, enti e istituti sovranazionali, su società di capitali, banche ecc. certificandone appunto il grado di solvibilità in caso di richiesta di mutui e altro. Il grado di solvibilità, cioè la garanzia di pagamento alla scadenza dell’obbligazione o del debito, viene valutato con delle lettere dell’alfabeto. Il massimo della garanzia, come abbiamo imparato tutti negli ultimi mesi, è contrassegnato dalla sigla “Aaa”, 3 volte “A”.
Se tornassimo alla nostra situazione del 2001, con un debito di 370 milioni e entrate non restituite per 900 milioni, potremmo provocatoriamente constatare che se in quel momento avessimo potuto riscuotere e gestire noi i nostri soldi avremmo avuto un avanzo di 530 milioni. Moody’s avrebbe probabilmente dovuto sfoderare una quarta “A” per la Sardegna!
E invece, non soltanto la spoliazione di risorse, che nel 2001 andava avanti da 10 anni, non si è fermata, ma come sappiamo ha continuato ad approfondirsi in modo drammatico, fino a privare i sardi di una cifra superiore ai 10 miliardi di euro.
Ma non disperiamo. La battaglia per le entrate è solo all’inizio: solo ora, dopo tante promesse disattese e tante prese in giro, i sardi stanno prendendo consapevolezza di quanto sia importante gestire la propria ricchezza, poca o tanta che sia.
E soprattutto si stanno rendendo conto che non è così poca (se fosse davvero poca non ci sarebbe motivo di rubarla!).
Se guardiamo al piccolo esperimento che abbiamo fatto ci rendiamo tutti conto che anche a situazione vigente una classe politica mossa per davvero dall’idea di sovranità dei sardi avrebbe garantito a se stessa, alla sua gente, alla nazione sarda, una condizione economica invidiabile: 1) assenza di indebitamento; 2) risorse da investire in infrastrutture, servizi sociali, aiuto all’impresa e alle famiglie, ricerca e innovazione; 3) un quadro economico relativamente sufficientemente affidabile.
In altri termini se in quel 2001 avessimo avuto, attraverso una Agenzia Sarda delle Entrate, una piena sovranità fiscale, avremmo avuto una tale condizione economica non solo per poter investire in qualunque struttura ritenuta strategica per creare benessere ai sardi e per generare nuova economia, ma avremmo anche potuto rilasciare dei buoni del tesoro sardi da vendere sul mercato ad un interesse ridicolo rispetto a quello che è costretta a pagare ad esempio l’Italia o qualsiasi altra nazione.
Invece…
(continua)

mercoledì 9 novembre 2011

Crisi e Fiscalità: Fisco, entrate, previsioni statutarie e legislative

II parte
di Giùliu Cherchi e Franciscu Sedda
Nel TITOLO III dello Statuto, l’articolo 7 recita:
“La Regione ha una propria finanza”, ovvero ha una propria gestione delle entrate e delle spese che le consente di gestirsi economicamente da sé.
Le finanze della Regione Sardegna dipendono in gran parte da compartecipazioni a tributi erariali, cioè la Regione acquisisce una parte delle imposte versate ogni anno dai cittadini/contribuenti residenti in Sardegna.
Gran parte del suo bilancio spese, delle sue uscite (quasi il 70% delle sue risorse economiche), deriva direttamente dalle imposte pagate dai sardi nelle quote previste nell’articolo 8 dello Statuto. Tali imposte derivano da tributi istituiti dal governo italiano (che ne ha la piena titolarità) e sono dunque statali (a parte quelle della lettera i dello stesso articolo, che invece sono regionali). Sono imposte dirette come quella che si paga sul proprio reddito (IRPEF), oppure imposte indirette come quelle che paghiamo ogni volta che compriamo qualcosa (IVA) o le imposte che entrano nel prezzo dei carburanti (gasolio, benzina, ecc.) ossia le “accise”.

Alla Sardegna come regione spetta però solo una parte di queste imposte versate dai sardi. Secondo l’art. 8 dello Statuto: 7 decimi di IRPEF, 9 decimi di accise, 9 decimi di IVA etc. Sulla base di queste percentuali il totale ricavato dalla Sardegna ammonta a circa 7 miliardi di euro. Il resto di queste imposte, circa il 20%, per statuto lo versiamo alle casse dello stato italiano. Allo stato italiano lasciamo anche altri soldi, che non compaiono nelle compartecipazioni e che vengono incassati direttamente dallo stato (le vedremo più avanti): in questo modo lo stato si porta via circa il 30% delle imposte e dei tributi versati ogni anno dai sardi.
Notare già da qui che quel 30% corrisponde alla cifra che manca per compensare completamente il nostro bilancio spese. Ossia, se a quel 70% di tributi che forma le entrate della Sardegna si sommasse questo 30% che va allo stato centrale, le spese della Regione sarebbero già oggi coperte da tasse e tributi pagati dai sardi.
Sempre nello stesso TITOLO III, l’articolo 9 recita: “La Regione può affidare agli organi dello Stato l’accertamento e la riscossione dei propri tributi”. Si noti: si parla di “propri tributi”.
Tornando ancora per un attimo all’art. 8, alla lettera i) c’è scritto (notare bene che qui si specifica, con questa formula, che queste imposte e/o tasse sono tributi regionali): “da imposte e tasse sul turismo e da altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i princìpi del sistema tributario dello Stato”. Qui si accenna a “tributi propri”. È simile a quanto visto prima, ma non è la stessa cosa: “tributi propri” e “propri tributi” non sono la stessa cosa.
Ricapitoliamo dunque.
Articolo 8 lettera i) “tributi propri”: quelli che la Regione Autonoma ha facoltà di istituire con proprie leggi ma in armonia con i principi tributari dello Stato italiano.
Articolo 9, “propri tributi”: le imposte versate ogni anno dai cittadini/contribuenti residenti in Sardegna, di cui alla Regione resta solo una parte (e non la totalità, come abbiamo già detto), sulla base della compartecipazione stabilita con lo Stato italiano.
Come sono riscossi dunque i nostri tributi citati nell’articolo 9?
Vengono riscossi dagli organi centrali dello stato, quindi dati non ad un’agenzia sarda ma alle casse centrali dello stato italiano. Tali soldi, poi, dovrebbero essere riversati nelle casse della Sardegna nelle quote stabilite dallo Statuto (quelle dell’art. 8). Diciamo dovrebbero, perché qui nasce uno dei grossi problemi di questa storia.
Infatti tale sistema di riscossione ha generato quella che tutti ormai conoscono come la “vertenza entrate”. Di cosa si tratta?
Da quanto si è riusciti a certificare in base ai documenti disponibili (il che significa che la cifra potrebbe essere maggiore), sappiamo che dal 1991 al 2004 sono state riversate nelle casse della Sardegna cifre inferiori a quelle dovute: un ammanco di circa 10 miliardi di euro derivato, ad esempio, da minori compartecipazioni sull’IRPEF (l’imposta più rilevante) che è stata pari a circa 4 decimi delle imposte pagate dai sardi, in luogo dei 7 decimi previsti nell’art. 8 dello Statuto. Altre compartecipazioni, sempre molto significative, sono state sottratte al gettito IVA e ad altre tasse e imposte, tra cui alcune che non compaiono, come scritto sopra, nelle compartecipazioni elencate nel famoso art. 8. Tali mancati versamenti di ritorno hanno generato un danno economico alla Sardegna, privandola di risorse di fatto già sue secondo le leggi italiane e secondo lo Statuto, che è una legge ancora più importante delle leggi ordinarie dello Stato, dato che è una legge costituzionale.
Nello stesso Statuto, per altro, esiste un articolo, il n. 51, che riconosce alla Sardegna il potere di ricorrere in giudizio contro lo stato davanti alla Corte Costituzionale in caso di leggi statali che causino un danno economico alla Regione. Ebbene, questo articolo così forte e importante è sempre stato disatteso da chi ha governato la Sardegna, tanto che mai in tutta la storia autonomistica i vari esecutivi sardi hanno fatto ricorso a questo strumento per ristabilire il diritto tributario.
Una simile mancanza di controlli e la rinuncia ad affermare i propri diritti sono state aggravate dal fatto che in Sardegna non esiste un’agenzia di accertamento e riscossione delle entrate. Questo ente venne istituito dalla giunta Soru (l’ARASE), anche a seguito di una lunga attività di sensibilizzazione indipendentista, ma solo per le tasse e imposte regionali (art 8 lettera i)). Tra l’altro, invece di far crescere e conferire all’ARASE pieno mandato per la riscossione di tutte le imposte previste dall’articolo 8, a inizio 2011 tale ente è stato chiuso dalla giunta Cappellacci perché ritenuto inutile dopo che la Corte Costituzionale aveva bocciato le cosiddette “tasse sul lusso” istituite dalla giunta Soru.
La stessa giunta Soru peraltro aveva istituito anche un’altra agenzia, l’Agenzia Regionale Osservatorio Economico, che aveva esattamente il compito di monitorare le entrate. Anche questa è stata chiusa dall’attuale esecutivo sardo e per lo stesso motivo: non serviva più.
In queste decisioni, nella loro tardiva e parziale attuazione prima e nella loro abolizione poi, c’è tutta la storia della disastrosa situazione economica della Sardegna. In parole povere, le scelte della politica sarda in materia tributaria hanno generato una tale assenza di sovranità economica e fiscale da metterci in una condizione di estrema debolezza e subalternità. Una politica a volte disattenta, altre volte rinunciataria, altre ancora semplicemente succube ci ha dunque condotto a situazioni al limite dell’assurdo, come ad esempio quella che andiamo a riassumere, relativa all’IRPEF.
Mentre nel corso degli anni si ricevevano minori entrate rispetto a quelle spettanti, restava invariata la quota relativa ai 7 decimi del credito di imposta a carico della Sardegna (allegato 1, art. 1, comma d). Spieghiamo meglio questo importante passaggio (che – ricordiamolo – è solo una parte dell’inghippo). Facciamolo con una metafora.
Immaginiamo le entrate della Sardegna derivanti dal’IRPEF come due mucchietti, uno che rappresenta i 7 decimi dell’imposta e l’altro i 3 decimi: il primo mucchio è la parte spettante alla Sardegna e l’altro quella spettante allo Stato italiano. Quando un sardo versa la propria IRPEF, può indicare delle spese da detrarre dal suo reddito: spese sanitarie, interessi passivi dei mutui, spese assicurative e previdenziali ecc. In questi casi si dice che va in “credito d’imposta”. I contribuenti, cioè, che al momento di versare la propria imposta sul reddito hanno pagato di più del dovuto, hanno diritto alla conseguente restituzione di una parte dei soldi versati. Le cifre da restituire ai cittadini, in base allo Statuto sardo, vanno calcolati suddividendoli in parti corrispondenti alle compartecipazioni, ossia: 7 decimi alla Sardegna e 3 decimi all’Italia. A lungo è accaduto invece che, mentre arrivavano in Sardegna i 4 decimi di compartecipazione IRPEF in luogo dei 7 decimi (come visto prima), dal conguaglio che doveva regolare i crediti d’imposta venivano sottratti 7 decimi. Soldi che uscivano dalle casse sarde, senza che a questi corrispondessero le entrate su cui erano calcolati.
Tornando ai mucchietti di cui parlavamo prima e facendo 100 il gettito totale dell’IRPEF e 10 il credito d’imposta totale (i soldi che devono essere restituiti ai cittadini, che devono essere 7 a carico della Sardegna e 3 all’Italia), abbiamo:
  • di quel 100, la Sardegna, in un primo momento, prende 40 in luogo di 70, lo Stato italiano ha prende 60 in luogo di 30;
  • dopo la detrazione dei crediti d’imposta, a quel 40 della Sardegna si è tolto 7, riducendolo così a 33, mentre dal 60 dello stato è stato tolto 3 facendolo scendere a 57.
I conti sono presto fatti: la Sardegna si è ritrovata con un mucchietto di 33 (su 100) anziché 63 (70 – 7) e lo Stato centrale con 57 anziché 27 (30 – 3). Da notare che nella realtà non si parla di numeri a due cifre ma di numeri ad almeno 7 cifre (decine di milioni di euro, solo in questo caso).
Quanto precede è solo un esempio delle modalità con cui è stato gestito fino ad oggi il regime finanziario della Regione sarda. Come si vede, già da questi esempi è chiaro che molti dei soldi delle nostre imposte, che spetterebbero alla Regione per far fronte alle proprie spese, la Regione in realtà non li ha a disposizione.
Nel prossimo capitolo tratteremo la questione della acquisizione delle entrate, ossia di come poterle incassare direttamente e quali risvolti economici ciò avrebbe su tutto il tessuto produttivo e sociale della Sardegna.

domenica 9 ottobre 2011

Crisi e Fiscalità: Introduzione

I parte
di Giuliu Cherchi e Franciscu Sedda
Cosa unisce in Sardegna la crisi economica della pastorizia con quella dell’autotrasporto, i panettieri con gli imprenditori agricoli, l’insegnante con l’artigiano, la fuga all’estero dei ricercatori sardi con l’emigrazione generica prepotentemente in corso ancora oggi?
La situazione è ben nota. Le fabbriche sono ormai tutte chiuse, gli imprenditori sono in mano all’agenzia italiana delle riscossioni e privi di linee di credito accessibili, le infrastrutture sono ferme da anni, i cittadini vedono in forte caduta la propria qualità della vita e le casse della Sardegna sono sempre più vuote.
La domanda è: cosa unisce tutto ciò? Perché si tratta di fenomeni tutti collegati, anche se dalle cronache dei mass media questo non appare. Beh, ciò che unisce tutto ciò non è la crisi mondiale, o non solo, e non è neppure colpa dell’euro o delle fameliche banche d’affari o dei cinesi.
Se pure tutte queste cause fossero reali, noi sardi – tanto per confermare di essere speciali – ci abbiamo aggiunto la nostra inclinazione per il paradosso, per il non senso.

Figli smemorati di una terra a cui non diamo alcun valore, se non quello meramente sentimentale, non riusciamo nemmeno a pensare che si possa fare qualcosa e che ci possa essere sia una ragione sia una cura per il nostro malessere esistenziale. Ci portiamo la nostra terra nel cuore e nella mente, nel nostro pellegrinare in cerca di futuro intorno al mondo, e questo sentimento non si traduce mai in una presa di coscienza di noi stessi, in determinazione ad assumerci la responsabilità della nostra storia. Questo crea terreno fertile per chiunque intenda, forte dell’inconsapevolezza e dell’ignoranza dei più sui meccanismi che regolano la nostra vita economica e sociale, speculare sulle nostre risorse e sulle nostre vite, arricchendosi e prosperando laddove noi vediamo solo povertà e depressione.
In queste sintetiche note proveremo ad analizzare e spiegare la situazione delle risorse economiche della Sardegna e alcuni meccanismi del mercato che generano incrementi di spesa e danni al sistema sociale, presentando il tutto in forma di capitoli, ma con l’avvertenza che si tratta di un sistema coerente in cui ogni elemento influenza gli altri. Faremo un po’ di luce su alcune questioni tecniche, a volte complesse, ma che è necessario affrontare per capire come stiano realmente le cose e come ciò che sembra un destino avverso sia invece un mix di incapacità, disinteresse, ignoranza e a volte semplice tornaconto della classe politica sarda unionista e/o autonomista di sempre. Questo fenomeno ha contribuito nei decenni a privarci delle difese culturali, politiche, sociali ed economiche per affrontare la crisi presente, a differenza di altre collettività, magari meno dotate di risorse ma meglio fornite di capitale umano e politico.
Partiremo affrontando un problema centrale e decisivo: quello dell’approvvigionamento delle risorse finanziarie. Si parlerà di tasse e tributi, dunque.