venerdì 18 novembre 2011

Per non morire di sete sulla riva di un fiume. Note sul rapporto fra entrate e debito pubblico

III parte
di Giùliu Cherchi e Franciscu Sedda
Ci sono frasi pronunciate troppo a lungo. Così a lungo che a forza di ripetercele ci siamo convinti che siano vere: “Se ci dividessimo dall’Italia moriremmo di fame!”.
Quante volte l’abbiamo sentita, e forse, persino pronunciata o anche solamente pensata?
Quando si parla di indipendenza, o forse semplicemente “di Sardegna”, questa frase ricorre puntualmente.
Ma è proprio vero che se ci separassimo dall’Italia non saremo autosufficienti economicamente? E poi cosa vuol dire essere autosufficienti economicamente? Esiste uno Stato, uno solo, al mondo che sia autosufficiente economicamente? E soprattutto, oggi, sotto l’Italia, dopo decenni di integrazione, come stiamo? Siamo sommersi dal benessere o stiamo forse italianamente morendo di fame?
Per iniziare a rispondere a tutte queste domande partiamo dalla prima e proviamo a ragionare su dei dati conosciuti, relativi ad un tema e un periodo ben preciso che ci tocca tutti e che oggi è al centro del dibattito e della vita quotidiana di ciascuno di noi: il rapporto fra entrate e debito pubblico.

Proveremo dunque a ragionare su questo rapporto per come si presentava nel 2001. Del resto lo sappiamo: uno dei modi migliori per costruire un futuro dignitoso è imparare dalle esperienze e dagli errori del passato.
Il nostro vuole dunque essere un modo semplice per iniziare a ragionare su cosa avremmo potuto fare se fossimo stati uno Stato indipendente. È un modo concreto per iniziare a dissolvere paure certamente legittime ma sicuramente dannose o mortali. Soprattutto quando vengono accettate come verità indiscutibili, come una specie di destino beffardo o forse meritato, una volta divenute come delle gabbie invisibili che ci imprigionano e bloccano, che invece di spingerci all’autocritica e alla creatività, allo studio e all’azione, finiscono per trasformarci in un popolo di rassegnati.
Prendiamo dunque in considerazione un periodo, come dicevamo, in cui i dati economici ci sono ben noti: il 2001, anno in cui al governo sardo sedeva la giunta di centrodestra guidata da Mauro Pili.
Nel documento del prof. Pigliaru, docente di economia all’Università di Cagliari divenuto assessore regionale al Bilancio e alla Programmazione nei primi anni della giunta di Renato Soru, si riporta che in quell’anno la Regione Autonoma della Sardegna aveva uno stock di debito di circa 370 milioni di euro. Una cifra accettabile, sopportabile e solvibile per uno Stato grande e popolato come la Sardegna.
E infatti, se facciamo mente locale, ci dovremmo ricordare che la Sardegna in quel momento (proprio come oggi) viveva, in materia di entrate, una delle stagioni più vergognose della sua storia. Come abbiamo già visto nel nostro primo intervento e vedremo meglio nei successivi, la questione delle entrate è fondamentale. E per l’anno 2001 la situazione si riassumeva così: se da una parte la Sardegna aveva un debito di 370 milioni dall’altra ci venivano versati minori entrate annuali per circa 900 milioni.
Se ci si pensa un secondo balza subito all’occhio il fatto che se avessimo avuto tutte le nostre entrate la Sardegna sarebbe stata forse l’unica nazione al mondo con dei bilanci in attivo, cioè senza un soldo di debito.
Ovviamente le cose sono un poco più complesse di così ma proviamo a portare all’estremo questo dato perturbante e provocatorio. Facciamolo anche in modo da riflettere, nel modo più semplice possibile e senza tecnicismi, sul alcune importanti questioni economiche.
Tutte la nazioni del mondo per perseguire miglioramenti sociali ed economici, oltre agli strumenti di natura tributaria e per non pesare troppo sull’economia dei propri cittadini, ricorrono allo strumento dei “buoni del tesoro” (anche noi come BOT), ovvero, a dei certificati garantiti dallo Stato che danno, in un arco di mesi o di anni, un certo rendimento, corrispondente all’interesse sull’investimento.
Questo rendimento è rapportato al grado di solvibilità che uno Stato garantisce. Quindi è proporzionale alla garanzia offerta dalla sua condizione economica. Più l’economia di uno Stato è florida e più dà garanzie; più garantisce e meno rischio ci sarà per l’investitore; quindi minore e più basso sarà l’interesse che lo Stato dovrà corrispondere a chi ha comprato i suoi buoni.
La garanzia sullo stato di solvibilità viene certificata da agenzie indipendenti che operano a livello mondiale, le ormai famosi agenzie di rating, fra cui Moody’s e Standard&Poor’s (ma ce ne sono anche delle altre).
Ciascuna società di rating rilascia periodicamente una sua valutazione su tutti gli stati nazionali, così come su regioni, enti e istituti sovranazionali, su società di capitali, banche ecc. certificandone appunto il grado di solvibilità in caso di richiesta di mutui e altro. Il grado di solvibilità, cioè la garanzia di pagamento alla scadenza dell’obbligazione o del debito, viene valutato con delle lettere dell’alfabeto. Il massimo della garanzia, come abbiamo imparato tutti negli ultimi mesi, è contrassegnato dalla sigla “Aaa”, 3 volte “A”.
Se tornassimo alla nostra situazione del 2001, con un debito di 370 milioni e entrate non restituite per 900 milioni, potremmo provocatoriamente constatare che se in quel momento avessimo potuto riscuotere e gestire noi i nostri soldi avremmo avuto un avanzo di 530 milioni. Moody’s avrebbe probabilmente dovuto sfoderare una quarta “A” per la Sardegna!
E invece, non soltanto la spoliazione di risorse, che nel 2001 andava avanti da 10 anni, non si è fermata, ma come sappiamo ha continuato ad approfondirsi in modo drammatico, fino a privare i sardi di una cifra superiore ai 10 miliardi di euro.
Ma non disperiamo. La battaglia per le entrate è solo all’inizio: solo ora, dopo tante promesse disattese e tante prese in giro, i sardi stanno prendendo consapevolezza di quanto sia importante gestire la propria ricchezza, poca o tanta che sia.
E soprattutto si stanno rendendo conto che non è così poca (se fosse davvero poca non ci sarebbe motivo di rubarla!).
Se guardiamo al piccolo esperimento che abbiamo fatto ci rendiamo tutti conto che anche a situazione vigente una classe politica mossa per davvero dall’idea di sovranità dei sardi avrebbe garantito a se stessa, alla sua gente, alla nazione sarda, una condizione economica invidiabile: 1) assenza di indebitamento; 2) risorse da investire in infrastrutture, servizi sociali, aiuto all’impresa e alle famiglie, ricerca e innovazione; 3) un quadro economico relativamente sufficientemente affidabile.
In altri termini se in quel 2001 avessimo avuto, attraverso una Agenzia Sarda delle Entrate, una piena sovranità fiscale, avremmo avuto una tale condizione economica non solo per poter investire in qualunque struttura ritenuta strategica per creare benessere ai sardi e per generare nuova economia, ma avremmo anche potuto rilasciare dei buoni del tesoro sardi da vendere sul mercato ad un interesse ridicolo rispetto a quello che è costretta a pagare ad esempio l’Italia o qualsiasi altra nazione.
Invece…
(continua)

mercoledì 9 novembre 2011

Crisi e Fiscalità: Fisco, entrate, previsioni statutarie e legislative

II parte
di Giùliu Cherchi e Franciscu Sedda
Nel TITOLO III dello Statuto, l’articolo 7 recita:
“La Regione ha una propria finanza”, ovvero ha una propria gestione delle entrate e delle spese che le consente di gestirsi economicamente da sé.
Le finanze della Regione Sardegna dipendono in gran parte da compartecipazioni a tributi erariali, cioè la Regione acquisisce una parte delle imposte versate ogni anno dai cittadini/contribuenti residenti in Sardegna.
Gran parte del suo bilancio spese, delle sue uscite (quasi il 70% delle sue risorse economiche), deriva direttamente dalle imposte pagate dai sardi nelle quote previste nell’articolo 8 dello Statuto. Tali imposte derivano da tributi istituiti dal governo italiano (che ne ha la piena titolarità) e sono dunque statali (a parte quelle della lettera i dello stesso articolo, che invece sono regionali). Sono imposte dirette come quella che si paga sul proprio reddito (IRPEF), oppure imposte indirette come quelle che paghiamo ogni volta che compriamo qualcosa (IVA) o le imposte che entrano nel prezzo dei carburanti (gasolio, benzina, ecc.) ossia le “accise”.

Alla Sardegna come regione spetta però solo una parte di queste imposte versate dai sardi. Secondo l’art. 8 dello Statuto: 7 decimi di IRPEF, 9 decimi di accise, 9 decimi di IVA etc. Sulla base di queste percentuali il totale ricavato dalla Sardegna ammonta a circa 7 miliardi di euro. Il resto di queste imposte, circa il 20%, per statuto lo versiamo alle casse dello stato italiano. Allo stato italiano lasciamo anche altri soldi, che non compaiono nelle compartecipazioni e che vengono incassati direttamente dallo stato (le vedremo più avanti): in questo modo lo stato si porta via circa il 30% delle imposte e dei tributi versati ogni anno dai sardi.
Notare già da qui che quel 30% corrisponde alla cifra che manca per compensare completamente il nostro bilancio spese. Ossia, se a quel 70% di tributi che forma le entrate della Sardegna si sommasse questo 30% che va allo stato centrale, le spese della Regione sarebbero già oggi coperte da tasse e tributi pagati dai sardi.
Sempre nello stesso TITOLO III, l’articolo 9 recita: “La Regione può affidare agli organi dello Stato l’accertamento e la riscossione dei propri tributi”. Si noti: si parla di “propri tributi”.
Tornando ancora per un attimo all’art. 8, alla lettera i) c’è scritto (notare bene che qui si specifica, con questa formula, che queste imposte e/o tasse sono tributi regionali): “da imposte e tasse sul turismo e da altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i princìpi del sistema tributario dello Stato”. Qui si accenna a “tributi propri”. È simile a quanto visto prima, ma non è la stessa cosa: “tributi propri” e “propri tributi” non sono la stessa cosa.
Ricapitoliamo dunque.
Articolo 8 lettera i) “tributi propri”: quelli che la Regione Autonoma ha facoltà di istituire con proprie leggi ma in armonia con i principi tributari dello Stato italiano.
Articolo 9, “propri tributi”: le imposte versate ogni anno dai cittadini/contribuenti residenti in Sardegna, di cui alla Regione resta solo una parte (e non la totalità, come abbiamo già detto), sulla base della compartecipazione stabilita con lo Stato italiano.
Come sono riscossi dunque i nostri tributi citati nell’articolo 9?
Vengono riscossi dagli organi centrali dello stato, quindi dati non ad un’agenzia sarda ma alle casse centrali dello stato italiano. Tali soldi, poi, dovrebbero essere riversati nelle casse della Sardegna nelle quote stabilite dallo Statuto (quelle dell’art. 8). Diciamo dovrebbero, perché qui nasce uno dei grossi problemi di questa storia.
Infatti tale sistema di riscossione ha generato quella che tutti ormai conoscono come la “vertenza entrate”. Di cosa si tratta?
Da quanto si è riusciti a certificare in base ai documenti disponibili (il che significa che la cifra potrebbe essere maggiore), sappiamo che dal 1991 al 2004 sono state riversate nelle casse della Sardegna cifre inferiori a quelle dovute: un ammanco di circa 10 miliardi di euro derivato, ad esempio, da minori compartecipazioni sull’IRPEF (l’imposta più rilevante) che è stata pari a circa 4 decimi delle imposte pagate dai sardi, in luogo dei 7 decimi previsti nell’art. 8 dello Statuto. Altre compartecipazioni, sempre molto significative, sono state sottratte al gettito IVA e ad altre tasse e imposte, tra cui alcune che non compaiono, come scritto sopra, nelle compartecipazioni elencate nel famoso art. 8. Tali mancati versamenti di ritorno hanno generato un danno economico alla Sardegna, privandola di risorse di fatto già sue secondo le leggi italiane e secondo lo Statuto, che è una legge ancora più importante delle leggi ordinarie dello Stato, dato che è una legge costituzionale.
Nello stesso Statuto, per altro, esiste un articolo, il n. 51, che riconosce alla Sardegna il potere di ricorrere in giudizio contro lo stato davanti alla Corte Costituzionale in caso di leggi statali che causino un danno economico alla Regione. Ebbene, questo articolo così forte e importante è sempre stato disatteso da chi ha governato la Sardegna, tanto che mai in tutta la storia autonomistica i vari esecutivi sardi hanno fatto ricorso a questo strumento per ristabilire il diritto tributario.
Una simile mancanza di controlli e la rinuncia ad affermare i propri diritti sono state aggravate dal fatto che in Sardegna non esiste un’agenzia di accertamento e riscossione delle entrate. Questo ente venne istituito dalla giunta Soru (l’ARASE), anche a seguito di una lunga attività di sensibilizzazione indipendentista, ma solo per le tasse e imposte regionali (art 8 lettera i)). Tra l’altro, invece di far crescere e conferire all’ARASE pieno mandato per la riscossione di tutte le imposte previste dall’articolo 8, a inizio 2011 tale ente è stato chiuso dalla giunta Cappellacci perché ritenuto inutile dopo che la Corte Costituzionale aveva bocciato le cosiddette “tasse sul lusso” istituite dalla giunta Soru.
La stessa giunta Soru peraltro aveva istituito anche un’altra agenzia, l’Agenzia Regionale Osservatorio Economico, che aveva esattamente il compito di monitorare le entrate. Anche questa è stata chiusa dall’attuale esecutivo sardo e per lo stesso motivo: non serviva più.
In queste decisioni, nella loro tardiva e parziale attuazione prima e nella loro abolizione poi, c’è tutta la storia della disastrosa situazione economica della Sardegna. In parole povere, le scelte della politica sarda in materia tributaria hanno generato una tale assenza di sovranità economica e fiscale da metterci in una condizione di estrema debolezza e subalternità. Una politica a volte disattenta, altre volte rinunciataria, altre ancora semplicemente succube ci ha dunque condotto a situazioni al limite dell’assurdo, come ad esempio quella che andiamo a riassumere, relativa all’IRPEF.
Mentre nel corso degli anni si ricevevano minori entrate rispetto a quelle spettanti, restava invariata la quota relativa ai 7 decimi del credito di imposta a carico della Sardegna (allegato 1, art. 1, comma d). Spieghiamo meglio questo importante passaggio (che – ricordiamolo – è solo una parte dell’inghippo). Facciamolo con una metafora.
Immaginiamo le entrate della Sardegna derivanti dal’IRPEF come due mucchietti, uno che rappresenta i 7 decimi dell’imposta e l’altro i 3 decimi: il primo mucchio è la parte spettante alla Sardegna e l’altro quella spettante allo Stato italiano. Quando un sardo versa la propria IRPEF, può indicare delle spese da detrarre dal suo reddito: spese sanitarie, interessi passivi dei mutui, spese assicurative e previdenziali ecc. In questi casi si dice che va in “credito d’imposta”. I contribuenti, cioè, che al momento di versare la propria imposta sul reddito hanno pagato di più del dovuto, hanno diritto alla conseguente restituzione di una parte dei soldi versati. Le cifre da restituire ai cittadini, in base allo Statuto sardo, vanno calcolati suddividendoli in parti corrispondenti alle compartecipazioni, ossia: 7 decimi alla Sardegna e 3 decimi all’Italia. A lungo è accaduto invece che, mentre arrivavano in Sardegna i 4 decimi di compartecipazione IRPEF in luogo dei 7 decimi (come visto prima), dal conguaglio che doveva regolare i crediti d’imposta venivano sottratti 7 decimi. Soldi che uscivano dalle casse sarde, senza che a questi corrispondessero le entrate su cui erano calcolati.
Tornando ai mucchietti di cui parlavamo prima e facendo 100 il gettito totale dell’IRPEF e 10 il credito d’imposta totale (i soldi che devono essere restituiti ai cittadini, che devono essere 7 a carico della Sardegna e 3 all’Italia), abbiamo:
  • di quel 100, la Sardegna, in un primo momento, prende 40 in luogo di 70, lo Stato italiano ha prende 60 in luogo di 30;
  • dopo la detrazione dei crediti d’imposta, a quel 40 della Sardegna si è tolto 7, riducendolo così a 33, mentre dal 60 dello stato è stato tolto 3 facendolo scendere a 57.
I conti sono presto fatti: la Sardegna si è ritrovata con un mucchietto di 33 (su 100) anziché 63 (70 – 7) e lo Stato centrale con 57 anziché 27 (30 – 3). Da notare che nella realtà non si parla di numeri a due cifre ma di numeri ad almeno 7 cifre (decine di milioni di euro, solo in questo caso).
Quanto precede è solo un esempio delle modalità con cui è stato gestito fino ad oggi il regime finanziario della Regione sarda. Come si vede, già da questi esempi è chiaro che molti dei soldi delle nostre imposte, che spetterebbero alla Regione per far fronte alle proprie spese, la Regione in realtà non li ha a disposizione.
Nel prossimo capitolo tratteremo la questione della acquisizione delle entrate, ossia di come poterle incassare direttamente e quali risvolti economici ciò avrebbe su tutto il tessuto produttivo e sociale della Sardegna.