di Giùliu Cherchi e Franciscu Sedda
Nel TITOLO III dello Statuto, l’articolo 7 recita:
“La Regione ha una propria finanza”, ovvero ha una propria gestione delle entrate e delle spese che le consente di gestirsi economicamente da sé.
Le finanze della Regione Sardegna dipendono in gran parte da compartecipazioni a tributi erariali, cioè la Regione acquisisce una parte delle imposte versate ogni anno dai cittadini/contribuenti residenti in Sardegna.
Gran parte del suo bilancio spese, delle sue uscite (quasi il 70% delle sue risorse economiche), deriva direttamente dalle imposte pagate dai sardi nelle quote previste nell’articolo 8 dello Statuto. Tali imposte derivano da tributi istituiti dal governo italiano (che ne ha la piena titolarità) e sono dunque statali (a parte quelle della lettera i dello stesso articolo, che invece sono regionali). Sono imposte dirette come quella che si paga sul proprio reddito (IRPEF), oppure imposte indirette come quelle che paghiamo ogni volta che compriamo qualcosa (IVA) o le imposte che entrano nel prezzo dei carburanti (gasolio, benzina, ecc.) ossia le “accise”.
Alla Sardegna come regione spetta però solo una parte di queste imposte versate dai sardi. Secondo l’art. 8 dello Statuto: 7 decimi di IRPEF, 9 decimi di accise, 9 decimi di IVA etc. Sulla base di queste percentuali il totale ricavato dalla Sardegna ammonta a circa 7 miliardi di euro. Il resto di queste imposte, circa il 20%, per statuto lo versiamo alle casse dello stato italiano. Allo stato italiano lasciamo anche altri soldi, che non compaiono nelle compartecipazioni e che vengono incassati direttamente dallo stato (le vedremo più avanti): in questo modo lo stato si porta via circa il 30% delle imposte e dei tributi versati ogni anno dai sardi.
Notare già da qui che quel 30% corrisponde alla cifra che manca per compensare completamente il nostro bilancio spese. Ossia, se a quel 70% di tributi che forma le entrate della Sardegna si sommasse questo 30% che va allo stato centrale, le spese della Regione sarebbero già oggi coperte da tasse e tributi pagati dai sardi.
Sempre nello stesso TITOLO III, l’articolo 9 recita: “La Regione può affidare agli organi dello Stato l’accertamento e la riscossione dei propri tributi”. Si noti: si parla di “propri tributi”.
Tornando ancora per un attimo all’art. 8, alla lettera i) c’è scritto (notare bene che qui si specifica, con questa formula, che queste imposte e/o tasse sono tributi regionali): “da imposte e tasse sul turismo e da altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i princìpi del sistema tributario dello Stato”. Qui si accenna a “tributi propri”. È simile a quanto visto prima, ma non è la stessa cosa: “tributi propri” e “propri tributi” non sono la stessa cosa.
Ricapitoliamo dunque.
Articolo 8 lettera i) “tributi propri”: quelli che la Regione Autonoma ha facoltà di istituire con proprie leggi ma in armonia con i principi tributari dello Stato italiano.
Articolo 9, “propri tributi”: le imposte versate ogni anno dai cittadini/contribuenti residenti in Sardegna, di cui alla Regione resta solo una parte (e non la totalità, come abbiamo già detto), sulla base della compartecipazione stabilita con lo Stato italiano.
Come sono riscossi dunque i nostri tributi citati nell’articolo 9?
Vengono riscossi dagli organi centrali dello stato, quindi dati non ad un’agenzia sarda ma alle casse centrali dello stato italiano. Tali soldi, poi, dovrebbero essere riversati nelle casse della Sardegna nelle quote stabilite dallo Statuto (quelle dell’art. 8). Diciamo dovrebbero, perché qui nasce uno dei grossi problemi di questa storia.
Infatti tale sistema di riscossione ha generato quella che tutti ormai conoscono come la “vertenza entrate”. Di cosa si tratta?
Da quanto si è riusciti a certificare in base ai documenti disponibili (il che significa che la cifra potrebbe essere maggiore), sappiamo che dal 1991 al 2004 sono state riversate nelle casse della Sardegna cifre inferiori a quelle dovute: un ammanco di circa 10 miliardi di euro derivato, ad esempio, da minori compartecipazioni sull’IRPEF (l’imposta più rilevante) che è stata pari a circa 4 decimi delle imposte pagate dai sardi, in luogo dei 7 decimi previsti nell’art. 8 dello Statuto. Altre compartecipazioni, sempre molto significative, sono state sottratte al gettito IVA e ad altre tasse e imposte, tra cui alcune che non compaiono, come scritto sopra, nelle compartecipazioni elencate nel famoso art. 8. Tali mancati versamenti di ritorno hanno generato un danno economico alla Sardegna, privandola di risorse di fatto già sue secondo le leggi italiane e secondo lo Statuto, che è una legge ancora più importante delle leggi ordinarie dello Stato, dato che è una legge costituzionale.
Nello stesso Statuto, per altro, esiste un articolo, il n. 51, che riconosce alla Sardegna il potere di ricorrere in giudizio contro lo stato davanti alla Corte Costituzionale in caso di leggi statali che causino un danno economico alla Regione. Ebbene, questo articolo così forte e importante è sempre stato disatteso da chi ha governato la Sardegna, tanto che mai in tutta la storia autonomistica i vari esecutivi sardi hanno fatto ricorso a questo strumento per ristabilire il diritto tributario.
Una simile mancanza di controlli e la rinuncia ad affermare i propri diritti sono state aggravate dal fatto che in Sardegna non esiste un’agenzia di accertamento e riscossione delle entrate. Questo ente venne istituito dalla giunta Soru (l’ARASE), anche a seguito di una lunga attività di sensibilizzazione indipendentista, ma solo per le tasse e imposte regionali (art 8 lettera i)). Tra l’altro, invece di far crescere e conferire all’ARASE pieno mandato per la riscossione di tutte le imposte previste dall’articolo 8, a inizio 2011 tale ente è stato chiuso dalla giunta Cappellacci perché ritenuto inutile dopo che la Corte Costituzionale aveva bocciato le cosiddette “tasse sul lusso” istituite dalla giunta Soru.
La stessa giunta Soru peraltro aveva istituito anche un’altra agenzia, l’Agenzia Regionale Osservatorio Economico, che aveva esattamente il compito di monitorare le entrate. Anche questa è stata chiusa dall’attuale esecutivo sardo e per lo stesso motivo: non serviva più.
In queste decisioni, nella loro tardiva e parziale attuazione prima e nella loro abolizione poi, c’è tutta la storia della disastrosa situazione economica della Sardegna. In parole povere, le scelte della politica sarda in materia tributaria hanno generato una tale assenza di sovranità economica e fiscale da metterci in una condizione di estrema debolezza e subalternità. Una politica a volte disattenta, altre volte rinunciataria, altre ancora semplicemente succube ci ha dunque condotto a situazioni al limite dell’assurdo, come ad esempio quella che andiamo a riassumere, relativa all’IRPEF.
Mentre nel corso degli anni si ricevevano minori entrate rispetto a quelle spettanti, restava invariata la quota relativa ai 7 decimi del credito di imposta a carico della Sardegna (allegato 1, art. 1, comma d). Spieghiamo meglio questo importante passaggio (che – ricordiamolo – è solo una parte dell’inghippo). Facciamolo con una metafora.
Immaginiamo le entrate della Sardegna derivanti dal’IRPEF come due mucchietti, uno che rappresenta i 7 decimi dell’imposta e l’altro i 3 decimi: il primo mucchio è la parte spettante alla Sardegna e l’altro quella spettante allo Stato italiano. Quando un sardo versa la propria IRPEF, può indicare delle spese da detrarre dal suo reddito: spese sanitarie, interessi passivi dei mutui, spese assicurative e previdenziali ecc. In questi casi si dice che va in “credito d’imposta”. I contribuenti, cioè, che al momento di versare la propria imposta sul reddito hanno pagato di più del dovuto, hanno diritto alla conseguente restituzione di una parte dei soldi versati. Le cifre da restituire ai cittadini, in base allo Statuto sardo, vanno calcolati suddividendoli in parti corrispondenti alle compartecipazioni, ossia: 7 decimi alla Sardegna e 3 decimi all’Italia. A lungo è accaduto invece che, mentre arrivavano in Sardegna i 4 decimi di compartecipazione IRPEF in luogo dei 7 decimi (come visto prima), dal conguaglio che doveva regolare i crediti d’imposta venivano sottratti 7 decimi. Soldi che uscivano dalle casse sarde, senza che a questi corrispondessero le entrate su cui erano calcolati.
Tornando ai mucchietti di cui parlavamo prima e facendo 100 il gettito totale dell’IRPEF e 10 il credito d’imposta totale (i soldi che devono essere restituiti ai cittadini, che devono essere 7 a carico della Sardegna e 3 all’Italia), abbiamo:
- di quel 100, la Sardegna, in un primo momento, prende 40 in luogo di 70, lo Stato italiano ha prende 60 in luogo di 30;
- dopo la detrazione dei crediti d’imposta, a quel 40 della Sardegna si è tolto 7, riducendolo così a 33, mentre dal 60 dello stato è stato tolto 3 facendolo scendere a 57.
Quanto precede è solo un esempio delle modalità con cui è stato gestito fino ad oggi il regime finanziario della Regione sarda. Come si vede, già da questi esempi è chiaro che molti dei soldi delle nostre imposte, che spetterebbero alla Regione per far fronte alle proprie spese, la Regione in realtà non li ha a disposizione.
Nel prossimo capitolo tratteremo la questione della acquisizione delle entrate, ossia di come poterle incassare direttamente e quali risvolti economici ciò avrebbe su tutto il tessuto produttivo e sociale della Sardegna.
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