domenica 31 gennaio 2010

Alcoa, ecco un esempio reale 2.


Il succo della storia sta tutto in una risata; quella che è scappata ai cronisti della Casa Bianca quando hanno scoperto dal portavoce Robert Gibbs che il presidente aveva scelto Pittsburgh come sede del G20, il 24 settembre. Dopo Pechino, Berlino, Londra… gli alti papaveri delle potenze industriali e delle economie emergenti riuniti a Pittsburgh? Possibile - si saranno chiesti - che Obama si riferisca proprio a quella città della Pennsylvania che fu, buonanima, la capitale mondiale dell’acciaio e che poi, con il tracollo dell’industria pesante, nei primi Ottanta, è diventata il simbolo della fine di un mondo, madre di tutte le ghost cities, rottame metropolitano arrugginito per primo nella Rost Belt? Provocazione per provocazione, allora perché non scegliere Detroit? E giù risatine. Poi Gibbs ha gelato i reporters di palazzo, ancora mal sintonizzati con la genialità visionaria del presidente: «Pittsburgh è una straordinaria storia americana, è la città del futuro».
Difatti, dopo una mezzoretta di strada anonima e piovosa dall’aeroporto, quando esci dal Fort Pitt Tunnel e ti trovi a passare, in un secondo, dal nulla grigio e vuoto della galleria al faccia a faccia micidiale con down town Pittsburgh, piazzato lì come una prua scintillante in mezzo a tre fiumi, una Manhattan lilliput dai colori pa stello - insomma quando hai questo frontale da amore a prima vista - è matematico che ti domandi con la bocca aperta: ma come hanno fatto a tenere nascosta una cosa bella così? Che segreto custodisce questa gente? Appena oltre il ponte ho telefonato a Tony Buba, ex operaio delle acciaierie, figlio di minatori e oggi leggendario regista che dagli anni Settanta non ha mai smesso di girare documentari su Braddock, il suo quartiere proletario: «Qui non si vedeva niente, i lampioni erano accesi anche di giorno, il fumo degli altiforni offuscava tutto, i fiumi erano neri e putridi» ha risposto Tony. «Poi le fabbriche hanno chiuso i cancelli, la città s’è fermata, la nebbia ha cominciato a diradarsi e pian piano è comparso il sole. A quel punto la gente ha scoperto di vivere in una città meravigliosa, ha deciso che bisognava farla rinascere. Ed eccoci qui, con l’Economist che dichiara Pittsburgh addirittura la città più vivibile d’America. Sto cucinando un luccio che ho pescato stamattina, passa pure».

Non lasciatevi ingannare dalle parole: “Pitts”, 310 mila abitanti, è ancora chiamata “the Steel city”, qui ha ancora sede il sindacato metalmeccanico, la United Steelworkers union, così come la sua controparte, la UsSteel corporation; e va da sé che la gloriosa squadra di football resta quella degli Steelers. Ma l’acciaio orspa mai c’entra con Pittsburgh come la Ruhr con il carbone, roba dell’altro secolo. Ora questa è la città dei 35 college e università - Carnegie Mellon e University of Pittsburgh i fiori all’occhiello - delle nanotecnologie, della bioingegneria, hub ospedaliero guidato dall’Upmc, uno dei più importanti provider sanitari del mondo, leader nel settore trapianti, che dà lavoro a 50 mila persone con un giro d’affari di 5,6 miliardi di euro (e infatti lo Steel tower, il grattacielo più alto, è diventato l’Upmc tower). Il Wall street journal ha deciso di chiamarla “Roboburgh” scegliendo la robotica come marchio distintivo dell’eccellenza pittsburghese (300 solo le aziende-spin off nate dal settore accademico dell’informatica con fondi interamente privati). Come è accaduto? «Vent’anni fa, mentre la siderurgia spariva provocando un disastro sociale devastante, il grande capitale, le famiglie dei Carnegie, dei Frick, dei Mellon, degli Heinz non sono scappate con il bottino» racconta Luke Ravenstahl, 29 anni, il più giovane sindaco d’America; «ma hanno continuato a finanziare le università e le fondazioni culturali. Così si è innescato un processo virtuoso che ha permesso alla ricerca di concentrarsi su progetti vincenti che hanno fatto man bassa di fondi federali, capitali che hanno attirato ricercatori e altro capitale privato». Paul C. Wood, vicepresidente dell’Upmc spiega così la diversità e quindi la personalità tosta di Pittsburgh: «Qui non si insegue la palla, ma cerchi di piazzarti dove pensi che la palla arriverà. Non si vive alla giornata, puntando sulla bolla del momento, ma si investe pensando alla prossima generazione e senza chiedere aiuti pubblici. Insomma la mentalità è ancora quella operaia, anche se non ci sono quasi più operai».

L’allusione è alla recessione che colpisce gli Stati Uniti appena varchi i confini della contea e alle flebo di miliardi regalati da Washington all’industria di Detroit. Perché, se il ribaltone durato vent’anni è costato la fuga di centomila abitanti e il dissanguamento delle casse comunali, oggi- siccome qui costo della vita e quello delle case non erano drogati - a differenza del resto del Paese il prezzo degli immobili sale, c’è un boom nella riconversione dell’edilizia industriale con investimenti per quasi 2,8 miliardi di euro, la disoccupazione è ferma al 5 per cento e il rebranding della città come «il miglior posto d’America per le famiglie di giovani professionisti» (Newsweek), ha portato, solo quest’anno, quattromila under 30 laureati a ripopolare gli 89 quartieri sparsi sulle colline e lungo i fiumi di Pittsburgh. Obama non poteva che scegliere la Steel city, la città che doveva morire e che invece si gode il suo Rinascimento.

Marzio G. Mian
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siamo passati dalla Germania all'America, tutti super uomini? oppure anche loro sono rimasti decenni senza mangiare, vestirsi, acquistare beni e servizi? no, hanno vissuto, risanato, costruito e convertito, ma come dice l'articolo, si sono accorti che il sole, sopra la cappa nera, c'era ancora. E lo vogliono per sempre.
PS
in questa città ha sede l'ALCOA .... non so se serve come indizio eh?
fonte: http://www.corriere.it/esteri/09_settembre_10/io_donna_pittsburgh_66660620-9e2a-11de-8f8c-00144f02aabc.shtml

sabato 30 gennaio 2010

LE CITTÀ INTERATTIVE



Essen, capitale europea della cultura
Da simbolo leggendario della rivoluzione industriale a laboratorio culturale contemporaneo e multietnico. La Ruhr, la regione tedesca nel Reno Westfalia, 5,4 milioni di abitanti in 4.500 chilometri quadrati, è uno degli agglomerati urbani più vasti d’Europa. Fino a trent’anni fa era una distesa infinita di escavatori e ciminiere fumanti. Poi, con il declino degli impianti siderurgici e delle miniere di carbone, ha conosciuto una trasformazione radicale: dopo aver riconvertito in parte il favoloso patrimonio di archeologia industriale, oggi si candida a diventare una delle metropoli globali del futuro con i suoi duecento musei, cento centri culturali, cento auditorium, 250 festival e 3.500 monumenti. Intanto l’Unesco ha dichiarato Essen capitale europea della cultura 2010, in rappresentanza delle cinquantatré città del Bacino, tra cui Dortmund e Duisburg. Quest’anno Essen, il cui nome è legato alla dinastia di industriali Krupp, e le altre città della Ruhr ospiteranno centinaia di eventi e festival che culmineranno il 18 luglio, quando l’autostrada da Dortmund a Duisburg verrà chiusa al traffico e trasformata in una unica grande area per pic-nic, simbolo di unità e fratellanza.
da: http://static.repubblica.it/repubblica/viaggi/interattivi/guide/essen/
Vi sembra impossibile dunque considerare questo in opposizione ad una industria della morte come quella dell'ALCOA di Portovesme e di tutti gli altri insediamenti industriali in Sardegna? i sardi non sono in grado di fare quanto fa un altra donna o uomo del mondo? la verità, forse, sta nel volere e desiderare un futuro, vero. Dove il futuro si trova dentro gli occhi felici dei propri figli.
Sardegna,24.090 km² - popolazione di 1 milione e 600 mila abitanti.
Ruhr, 4 mila e 500 km² - 5,4 milioni di abitanti